I’m not doing well.
My mind is not doing well.
Non riesco a trovare un’espressione più adatta di questa in italiano, e per una scrittrice, aspirante editor, non è una cosa di cui andarne fiera. Eppure ci sono cose che puoi pensare o dire solo in un’altra lingua e per fortuna, o sfiga, ne padroneggio ben tre.
Batterie ormai esaurite dopo un inverno trascorso di nuovo da studentessa e l’effimero sollievo di valere ancora qualcosa mentre studiavo. E poi è arrivato, puntuale come sempre, lo sconforto del post diploma e l’incertezza come premio al merito. E mi ritrovo con l’ennesima medaglia puntata al petto e i quaranta anni che marciano come fascisti su Roma.
La voglia non c’è e mi fa compagnia un’apatia stonata che stordisce le mie giornate e mi consuma la mente.
Sempre stanca, faccio tutto quando in realtà vorrei stare a letto e arrendermi all’indolenza. Ma sono mamma e “riposare” nel mio vocabolario non c’è, è stato cancellato con il bianchetto nel momento in cui mio figlio è venuto alla luce.
Una stanchezza cronica che mi trascino dietro e mi trascina di peso tutti i giorni. Depressione, forse? Ma se dico che sono depressa significa che non lo sono per davvero. I depressi mica dicono di essere depressi.
E allora cos’ho che non va? Potete per favore mandarmi in assistenza e vedere cosa ho di rotto?
Una vita in attesa che accada qualcosa, così mi sento. Il telefono sta zitto e la posta elettronica è intasata solo di spam e newsletter. Noia. Annoiarsi è ancora permesso? Devi essere produttiva, darti da fare, inventarti il lavoro se non ti chiamano, reinventare te stessa è d’obbligo.
Ma ne mme n’a fid’a ffà nende! (trad. dal sanseverese, non ne ho la forza di fare niente.)
È un anno che sono in Italia. Molto è cambiato, altrettanto e’ rimasto uguale.
Tra pochi giorni partirò per Tokyo, un’estate nel caldo umido del sol levante col sottofondo delle enormi cicale che ti stordiscono nei pomeriggi afosi, una stagione per far pace con il Giappone, un paio di mesi per far pace con me stessa.
Alba